Resilienza e nuove risorse per la sicurezza – Intervista alla ricercatrice Patrizia Garista

Resilienza e nuove risorse per la sicurezza: intervista alla ricercatrice Patrizia Garista
La redazione di IUL@Work ha intervistato la ricercatrice Indire, Patrizia Garista, sul tema della resilienza per approfondire quali opportunità offre nella didattica e in che modo si intreccia con la cultura della sicurezza.

Qual è la definizione di resilienza? Ci può fare alcuni esempi pratici?
Il termine resilienza è presente nei nostri dizionari, ma è ancora poco diffuso in Italia, a differenza invece delle zone anglosassoni dove trova ampio impiego. Resilienza deriva dal latino resalio e significa “rimbalzare, saltare indietro”; è un termine utilizzato inizialmente nell’ingegneria e nell’informatica, diffuso nel campo delle scienze dei materiali per indicare la capacità di alcuni materiali di resistere alle sollecitazioni esterne, senza spezzarsi, per poi tornare alla forma originaria. Questa caratteristica può essere testata con alcuni strumenti, ad esempio con il pendolo di Charpy che permette di identificare il materiale più indicato rispetto all’uso che dobbiamo farne.
Negli ultimi trent’anni, il termine resilienza è scivolato in altri ambiti, compreso quello delle scienze sociali, a partire dalla ricerca sulle storie di alcune persone che dopo aver subito un trauma, sono riuscite a recuperare le fila della loro esistenza riprogettandosi in senso positivo. Gli studi che si sono sviluppati hanno cercato di mettere a fuoco questo aspetto non come caratteristica intrinseca di alcuni individui, ma come processo e, infine, come competenza che si può sviluppare in qualsiasi fase della vita. Va infatti sottolineato che con il termine resilienza non indichiamo solo la capacità di far fronte agli eventi, ma anche l’abilità di trovare delle nuove risorse. La resilienza può dunque essere definita come un vero e proprio processo di apprendimento, che si attiva mentre si sta risolvendo un problema, è quindi un fenomeno dinamico e in divenire e soprattutto generativo. In una prospettiva educativa la resilienza non è quindi un salto all’indietro ma, come dice Froma Walsh, è un salto in avanti. Il processo che porta a individuare e usare nuove risorse, negli ultimi anni, è stato considerato non solo sul piano individuale, ma anche comunitario, in riferimento a chi, in situazione d’emergenza, riesce a re-agire. Possiamo quindi immaginare ragazzi resilienti, docenti resilienti ma anche scuole e comunità resilienti.
Per fare un esempio concreto nel testo curato da Cristina Castelli “Resilienza e creatività. Teorie e tecniche nei contesti di vulnerabilità” si descrivono interventi e progetti che utilizzano i laboratori e la skill “creatività” per supportare azioni di trasformazione e recupero in vari contesti, tra cui le comunità in Abruzzo, nella fase successiva al terremoto. Nei progetti descritti il rapporto con il territorio e i mestieri che lo caratterizzavano gioca un ruolo importante nello sviluppo di resilienza. Quella stessa terra che, sconvolgendo la vita degli abruzzesi, ha tolto loro molte certezze. Il progetto ha puntato sul recupero del lavoro artigianale ancorato al territorio e quindi dei mestieri e dei saperi che erano andati persi. Per i bambini sono stati realizzati diversi laboratori creativi e di scrittura che puntavano a mettere in luce i vari talenti o che lavorando con le storie e le metafore permettevano di affrontare le difficoltà. Le figure esterne (i tutor della resilienza) che supportano le comunità in caso di stress hanno quindi un ruolo cruciale ovvero aiutano a recuperare le risorse interne o gli assett della comunità senza sostituirsi alle persone. La protezione civile è in questi casi un interlocutore importante che può assumere o meno una prospettiva resiliente nella risposta alle emergenze. La resilienza infatti si attiva quando un soggetto incontra una figura esterna che lo guida nel far emergere e nello sviluppare queste capacità potenzialmente presenti.
Un ulteriore aspetto da considerare è quello preventivo che consiste nell’analizzare un contesto svantaggiato, identificando i suoi punti di forza. La grande novità quindi è nell’approccio che prevede un soggetto attivo, partecipe di un processo in divenire. È per questo che la resilienza non va confusa con la “resistenza” a volte usata come sinonimo e che invece indica un comportamento meno generativo. C’è ancora bisogno quindi di una ricerca sul tema, che definisca il significato di alcuni termini, a volte impiegati inconsapevolmente.

In che modo si può educare alla resilienza?
La resilienza, appunto, non è solo la capacità di far fronte alle emergenze, ma anche quella di ribaltarle, trasformandole in opportunità. Da questo punto di vista, può essere paragonata al processo di formazione, come nota Elena Malaguti. Le due parole chiave in ambito educativo sono apprendimento e trasformazione: un processo che trasforma un’esperienza negativa in apprendimento. Educare alla resilienza significa quindi aiutare a superare il trauma/un evento stressante/una situazione di deprivazione per riprogettare in modo positivo se stessi, imparando a gestire i cambiamenti.

Per cultura della sicurezza si intende generalmente la capacità di acquisire consapevolezza di sé e quindi di responsabilizzarsi verso se stessi e gli altri. Alla luce di tale definizione, la resilienza può svolgere un ruolo di formazione ed educazione ad essa?
Quando parliamo di resilienza e sicurezza possiamo individuare almeno due aspetti, uno che ha a che fare con lo studio delle comunità resilienti e l’altro più strettamente collegato alla percezione del rischio. L’individuo, e la comunità resiliente, imparano a individuare i rischi, sviluppando la capacità di gestirli. L’educazione eccessivamente protettiva, come quella che ha caratterizzato gli ultimi decenni, genera spesso persone fragili, incapaci di far fronte a ogni difficoltà: dal voto negativo preso a scuola a eventi più impegnativi. La penisola scandinava è vista spesso come punto di riferimento nel welfare e nel sistema scuola, eppure secondo alcuni studi, molti ragazzi svedesi sviluppano problematiche psico-sociali legate proprio all’eccesso di protezione. Anche in Italia, spesso si va a scuola accompagnati dai genitori e si cerca di proteggere i ragazzi da qualunque pericolo, perfino che un bambino si sbucci un ginocchio giocando. Evitando polemiche sterili sulla situazione delle nostre scuole, sperimentare il rischio in situazioni protette è il modo migliore per imparare ad affrontarlo. Per questo motivo, quelle non a norma potrebbero rappresentare perfino un’opportunità di miglioramento. Lavorando sul singolo caso, attraverso strumenti preposti, si possono monitorare gli aspetti negativi insieme agli asset positivi in modo da usare il contesto di riferimento come punto di partenza per una trasformazione.
La resilienza è un aspetto trasversale. Poco tempo fa l’Accademia della Crusca ha ricostruito la storia del termine e anche su alcuni quotidiani, come il Corriere della Sera, si è parlato di resilienza come aspetto connesso alla contemporaneità in tempo di crisi. Nella lingua cinese però la parola “crisi” è legata a due elementi che la compongono: rischio e opportunità.
Ecco perché entra in gioco la valutazione del rischio anche sotto altri aspetti. Ogni storia resiliente nasce nel momento in cui qualcuno si è assunto il rischio di investire in un miglioramento; un compito che può spettare anche a un docente o a un dirigente scolastico – in fondo è questa la storia delle scuole innovative – perché la resilienza è la capacità di stare nell’ignoto, di sapersi rimettere in gioco.

La resilienza può trasformarsi in opportunità didattica? E quali sono gli aspetti innovativi che comporta dal punto di vista metodologico?
La resilienza si può promuovere anche utilizzando metodologie didattiche innovative.
Nella progettazione educativa a scuola si può intervenire ad esempio anche sul curricolo. Un’unità didattica centrata sulla resilienza potrebbe rileggere i contenuti delle varie discipline come stimoli per rappresentare esempi del processo resiliente. Ciò può avvenire con le materie scientifiche (la scienza dei materiali o biologia) così come nell’ambito storico, artistico e letterario perché tanti sono i casi storici di resilienza da analizzare. Per fare alcuni esempi: la crisi del ’29, la ricostruzione post-bellica, ma anche le autobiografie di molti artisti, pittori e scrittori che attraverso il meccanismo dell’intellettualizzazione e dell’espressione artistica hanno ri-creato la loro storia. Lord Byron ad esempio era riuscito a trasformare il suo problema alla gamba in un aspetto attrattivo della sua persona. Tra i meccanismi che supportano maggiormente la resilienza non possiamo dimenticare l’umorismo, ricorrendo a un meccanismo che, invertendo l’ordine del discorso, crea sorpresa e nuove visioni della stessa situazione. Ci sono molti film che possono essere recuperati nella didattica per parlare di storia, di orientamento e resilienza. Ad esempio il film “La Vita è Bella” mostra come l’umorismo riesca a dare valore alle cose attraverso il gioco. Un altro film-manifesto della resilienza è Billy Elliot, un personaggio che cerca di cambiare le cose e di fare le sue scelte formative in un contesto con pochissime risorse. Continuando la nostra lista di esempi didattici, citiamo due progetti in corso: un progetto LLP Comenius (2012-2015) che si chiama Rescur – Resilience Curriculum coordinato dall’Università di Malta a cui partecipano l’Università di Creta, di Lisbona, la Orebro University (Svezia), l’Università degli Studi di Pavia e quella di Zagabria. L’obiettivo è di introdurre la resilienza, e le attività a essa legate, nel curricolo.
Un altro progetto interessante lega invece la resilienza all’individuazione di strumenti per valutarla e svilupparla in relazione al contesto educativo e di sviluppo professionale (http://www.resilience-project.eu/uploads/media/Folder_it_01.pdf) .
Tuttavia la progettazione didattica improntata sull’aspetto resiliente può riguardare lo sviluppo di competenze trasversali, i processi di integrazione, quindi la multiculturalità e l’interculturalità, l’orientamento, l’inclusione, l’attività motoria, la relazione tra resilienti e top performers, i challenge posti dal digitale anche rispetto ai temi della sicurezza (digital resilience), solo per fare alcuni esempi.

La resilienza riguarda un approccio sistematico? È prevista una raccolta di buone pratiche?
L’Unesco e altre Organizzazioni si sono attivate per elaborare delle linee guida ad esempio sulle città e comunità resilienti (alcune facilmente reperibili online), ma non esiste un modello definito a priori perché la resilienza implica il recupero di risorse inattese ed inesplorate e non l’impiego di soluzioni preconfezionate.
Tuttavia in Italia questo processo di ricerca e progettazione con una prospettiva resiliente è un po’ rallentato e sicuramente l’appoggio delle istituzioni darebbe una spinta propulsiva a certi processi.
A Malta, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Australia la resilienza è un costrutto radicato da anni, il che ha permesso di fare già della valutazioni a lungo termine sugli interventi effettuati a scuola.
In Italia, invece, la resilienza si è sviluppata soprattutto in relazione alla gestione di problemi e patologie in ambito sanitario e meno nei contesti educativi.
Da noi si lavora poco per portare la prospettiva della resilienza nelle scuole, quindi molto spesso l’impegno del singolo insegnante non basta, ma sarebbe auspicabile che interi istituti o addirittura le politiche stesse incoraggiassero questo approccio che guarda sempre al cambiamento come a una sfida per migliorare l’esistente.
Una possibilità può essere offerta dal formare reti di contatto e dalla raccolta delle esperienze significative. Questo potrebbe sicuramente velocizzare l’aggiornamento verso un approccio più internazionalista così da cogliere nelle strade non battute un’opportunità di crescita per le scuole “resilienti e sicure”.